Jemma Kennedy, scrittrice inglese, ha raccontato al quotidiano Guardian di essersi ammalata di Covid-19 a metà marzo. La diagnosi parlava di una forma lieve , senza necessità di ricovero ospedaliero. Gli esami erano buoni: sangue, cuore, polmoni; sembrava tutto a posto. «Ma il corpo mi diceva qualcosa di diverso. Per sei settimane mi sono sentita come se ogni mia cellula fosse stata avvelenata. Avevo il fiatone e un costante dolore al petto. A maggio mi sono sentita meglio e ho pensato che il peggio fosse passato, finché non sono stata travolta da un affaticamento post-virale che si è rivelato quasi peggiore della malattia». A fine luglio Kennedy aveva paura persino di coricarsi e spesso era costretta a dormire seduta per placare il dolore ai polmoni che la tormentava da sdraiata. «Mesi di gastroenterite virale mi hanno lasciato con una colite intestinale che necessita di un regime dietetico rigoroso; mi fa male la testa, la pelle mi pizzica e la stanchezza mi schiaccia come una coperta imbottita di cani morti. Mio marito deve lavarmi, imboccarmi, aiutarmi ad alzarmi dal letto”.
Jemma e molte altre persone che, come lei, si chiedono quando l’incubo che stanno vivendo finirà. Nessuno conosce la risposta. Ormai è però evidente che COVID-19 è una malattia multiorgano: oltre ai polmoni, può colpire il cuore, il cervello, il sistema nervoso, il pancreas, i reni, l’intestino, la pelle, la tiroide e il sistema muscolo-scheletrico.
Forse il coronavirus è ancora annidato negli organi dei long-hauler: sfugge ai tamponi nasofaringei ma non ha perso la capacità di replicarsi e di fare danni. Oppure potrebbe avere innescato una riposta immunitaria sproporzionata e persistente, all’origine delle infiammazioni agli organi che non si placano neppure dopo che il coronavirus è stato debellato. È quel che del resto accade anche con la febbre dengue.